martedì 28 agosto 2007

Frammento

Resterò in trance cinque minuti e poi le parole cominceranno a sgorgare. Cominciamo dalle associazioni: analisi cliniche, cornetto e caffè, barbiere e parrucchiere. Squillo, sms, richiamare. Tutte cose quotidiane. Ieri, non so perché, ho sentito il bisogno di riprendermi il mio spazio e, l’altro giorno, di essere un po’ rude. Il telefono e tutti i mezzi di comunicazione a distanza sono una sventura. Anche internet e il computer. Ancora non ci siamo: nessuna parola è come dovrebbe essere: non ci sono sentimenti profondi da comunicare. La potenza espressiva non si sviluppa, non decolla, non diventa pagina che valga la pena leggere. Potrei provare con altri trucchetti: amore, gelosia, mistero, una lunga catena di eventi che poi sfoci in un dramma, ma occorrerebbero tante parole, veramente tante e tutte concatenate in modo da avere uno o più sensi compiuti. Dovrei narrare per linee verticali, orizzontali e trasversali, e ogni parola dovrebbe essere odorosa e saporita. Ambizione, lettori, di cui almeno uno che ti legga e dimentichi di scendere alla fermata del treno e poi imprechi contro di me. Ecco una storia ha fatto capolino nella mia testa. Ma è una ministoria e, poi, a chi vuoi che interessi se qualcuno perde il treno a causa mia.

Dovrei scendere nella miniera della mia storia, ma la mia storia è così povera di metalli, che sarebbe una cattiva impresa. Allora nella storia di un altro o di un’altra, ma anche lì ci vogliono buoni occhi per vedere i particolari che, nella vita, scorrono senza avere particolare importanza e, invece, sul foglio diventano un appassionante rosario di eventi. E poi nelle vite degli altri mi sembrerebbe di rubare.

Oggi non mi sento un ladro, ma mi piacerebbe viaggiare seduto su un foglio di aquilone.

Ecco l’ho detto, non è vero, ma l’ho detto lo stesso.

Nessun foglio, nessun aquilone. Solo una nuotata e una piccola macchia rossa da raggiungere

lunedì 27 agosto 2007

Lucio

Bruciavano le macchine in quel periodo a Riposto. Di notte qualcuno, appassionato delle fiamme, solo per passatempo, si metteva ad appiccare il fuoco. Fu così che la puzza di bruciato giunse fino alle narici di Lucio, che, in quel momento, era impegnato nella sua realtà, a giocare a carte con un amico gnomo.

Lucio u pazzu, quando era nella nostra realtà, che per lui comunque era un gioco in cui credeva di dar fondo a tutte le sue migliori doti di fantasia ed immaginazione, era un incredibile bestemmiatore. Siccome io non condivido il fatto di bestemmiare, non ho preso appunti quella notte. Tuttavia vi devo assicurare che la fantasia di Lucio non aveva limiti. Così come non sembrava avere limiti la sua capacità di ricordare a memoria versetti della Bibbia, l'unico libro che leggeva avidamente da una trentina di anni a questa parte, solo perché gli piaceva fare polemica con Dio. Di giorno fermava i passanti e chiedeva loro se conoscessero quel tale o tal altro episodio del Libro sacro. E se qualcuno, di tanto in tanto, gli dava corda, con modi un po' alterati, gli spiegava come anche il più cattivo degli uomini, in quella o in quell'altra storia, si sarebbe comportato in modo più umano di come aveva agito il Signore degli Ebrei.

Uscì per strada, quella notte, richiamato dalla sirena del mezzo dei pompieri e attraversò la strada senza guardare, con l'attenzione, il naso e la bocca a cercare dove fosse scoppiato l'incendio.

E che ci poteva fare se i suoi amici folletti lo prendevano per scemo. Lui di tante cose di quella realtà immaginaria non poteva fare a meno. L'acqua corrente, il pane caldo, lo sticchio, non esistevano nel vero mondo, e, quanto meno, non esistevano le fragranze e i sapori che riusciva a provare in quel mondo di fantasia. E così malgrado tante persone lo prendessero in giro e si comportassero spesso da grandissimi figghi di troia, lui i suoi giri in paese, doveva farseli. Gli accadeva poi spesso di dileggiare quel Dio che non esisteva, come non esisteva quel suo mondo di immaginazione, e di attraversare la strada senza curarsi di velocissime autovetture che esistevano solo nella sua mente, come gli aveva rivelato il folletto psichiatra che lo aveva in cura.

U pazzu sapeva di non essere il migliore degli uomini, ma quando i bambini lo prendevano in giro non li malediva come aveva fatto il profeta migliaia di anni prima, per timore che quel Dio che detestava, mandasse la sua orsa ad ucciderli, non potendo neanche immaginare il rimorso di coscienza che avrebbe provato alla vista dei giovinetti orribilmente straziati dalla fiera.

E poi poteva permettersi di disputare con Dio perché, intanto non era il primo a farlo nella storia e poi perché la sua malattia mentale era acclarata in entrambi in mondi in cui viveva. Questo avevano in comune il suo folletto psichiatra e l'uomo psichiatra della sua realtà immaginaria: che entrambi davano così poca importanza alle due realtà di quel povero Cristo, che era una fortuna che quello non se ne fosse inventata una terza per sfuggire ai suoi medici.

venerdì 24 agosto 2007

Frammento

Avevo la testa tra le grandi cosce di Clara e, da un certo punto di vista, non mi ero mai sentito tanto a disagio come in quella occasione. Era come sprofondare in un gorgo, perdevo l’aria, soffocavo e avevo una forte sensazione claustrofobica, temendo che lei potesse stringere le gambe improvvisamente, per uno spasmo dovuto all’orgasmo, e soffocarmi. Alzai la testa e la guardai. Lei mi disse: “perché ti fermi?”. Io risposi mentendo: “mi stai facendo impazzire, voglio scoparti!”. Le salì addosso e infilai il mio pene dentro di lei. Lei con aria un po’ delusa accettò la cosa, e, dopo un po’ si mise a ridere sonoramente. “Rido sempre quando vengo”, mi disse, “non ti preoccupare”. Alla fine si alzò dal lettino e si sdraiò su un divano. La sentì singhiozzare per un po’ e io allora mi avvicinai chiedendomi cosa avesse. Lei si girò di scatto verso di me e chiese: “Sono tanto brutta allora?” Due menzogne nella stessa sera non le posso dire. Non risposi. Alla fine riuscimmo a dormire qualche ora quella notte.

Tornai da Napoli molto confuso. Ero riuscito a scopare Clara e la cosa, ad un certo punto, non mi era sembrata poi così facile da realizzare; pensavo che avrei fallito miseramente e invece c’ero riuscito, pur avendola ferita. Tutta la vicenda però mi aveva fatto riflettere e, senza dubbio, aveva costituito un duro colpo per la mia immagine interna di persona buona.

Avevo sempre pensato che la bellezza non avrebbe avuto così tanta importanza e che, alla fin fine, avrei potuto innamorarmi benissimo, allo stesso modo, della più bella delle modelle come della più brutta e grassa delle donne. Era qualcosa che aveva a che fare con la poesia: quando si legge una poesia si dimentica che la realtà è molto più ruvida e tagliente del puro sentimento e che noi facciamo parte della realtà e non del sentimento.

A Villa scesi dal treno e salì sul traghetto a piedi. L’aria di mare mi aiutava a dimenticare quanto mi sentissi cattivo e reale.

lunedì 20 agosto 2007

Mi scusi, signor Elettrone, mi sa dire che ora è?

Nella meccanica quantistica le particelle elementari che costituiscono la materia vengono descritte come onde di probabilità. L’osservatore, per limiti propri degli strumenti di osservazione, non potrà determinare con esattezza e contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella elementare. A questo punto gli scienziati si limitano a trattare le particelle elementari come funzioni d’onda e le misurazioni potranno essere solo statistiche e non precise. Quello che vale nel mondo macroscopico non può valere nel mondo microscopico, dove anche un fotone ha un'energia e se cerchiamo di osservare una particella tramite tale quanto di radiazione elettromagnetica, ciò disturberà l’oggetto osservato.
A parlare di queste cose mi rendo conto dell’inadeguatezza dei miei strumenti culturali. Se parlassi dei segni zodiacali forse potrei ostentare una sicurezza maggiore. Eppure non per questo mi voglio sottrarre a una riflessione, perché in fondo la meccanica quantistica conferma una cosa che ho pensato spesso nel corso degli anni e, cioè, che quanto più precisamente vogliamo descrivere una cosa (ad esempio, la bellezza di una donna, un fenomeno economico, il rumore che fa la marmitta della nostra macchina, un nostro stato interiore etc) meno riusciamo a essere a essere precisi e a conoscere il fatto che ci sta di fronte. E’ come se, più ci avviciniamo a una cosa, più la disturbiamo e la distorciamo. Nella meccanica quantistica avviene un fenomeno simile; “mi può dire signor elettrone, in che posizione si trova in questo momento?” L’elettrone si girà e rallenta e passa un attimo e non sappiamo più in che posizione si trovava quando glielo abbiamo chiesto. E così via, più lo inseguiamo e più ci sfugge. Alla fine non sappiamo nemmeno se l’elettrone esiste o se è solo il processo di qualcosa che non è o che è e non è allo stesso tempo. Forse si potrebbe trovare qua, forse là. Ma nemmeno ci interessa perchè ci limitiamo a descrivere il giro che fa, in un percorso che è delimitato a priori da qualche altra legge fisica.

domenica 19 agosto 2007

L'onda

Il pomeriggio era arrivato da un po’ e se ne stava quasi andando. La terra vibrava sotto l’oceano mentre si formava una piccola impercettibile onda nell’acqua. L’onda è una forma di niente in movimento. A volte viene cavalcata dal mare, a volte dall’aria. Può accadere che si formino suoni; raramente, da noi, si formano musica o parole.
Ma quell’onda di mare, che neanche si vedeva, sarebbe diventata molto grande quel giorno.
Marta uscì dal suo appartamento. Discese le due rampe della scala condominiale. Pigiò un bottone e sentì il solito scatto. Tirò la grande porta con tutta la sua forza finché non fu aperta. L’acqua del mare, che nel frattempo stava inondando la città, penetrò nell’atrio del vecchio palazzo trascinandola con sé verso l’interno.
Marta pesava poco, un fuscello in mezzo all’onda che conquistava la città, ma da quel giorno prese coscienza della propria magrezza e decise che avrebbe dovuto alimentarsi di più. Notizia certa che adesso è in cura da uno psicoterapeuta di scuola freudiana per curare la propria anoressia. Altro non so.
In quello stesso identico istante Fabio correva che più forte non poteva sotto un sole ancora abbastanza ardente e ricco di raggi, producendo suoni sordi e quasi impercettibili con le sue scarpe da jogging. Stava per fare il suo terzo giro di pista, quando l’onda lo afferrò alle spalle e lo spinse in avanti. Ebbe prima l’impressione di essere diventato molto più leggero e poi quella che il mondo gli pesasse sulle spalle. Fabio era un bel ragazzo con le spalle larghe e muscoloso. Pesava ottantadue chili ed era alto uno e ottanta. Nessuno lo ha più rivisto da quel giorno, ma è certo che nel frattempo ha telefonato per tre volte alla madre, dicendole di stare bene e di non volere essere cercato.
Concetta stava andando al supermercato. Aveva poche cose da comprare perché stava da sola e quella sera il suo amante, padre di famiglia, con un bambino di sei mesi e una cagnetta di dieci anni, non sarebbe andato a trovarla. Doveva comprare due fette di prosciutto, un panino e un insalata confezionata, perché aveva dei dischi nuovi appena comprati e li voleva ascoltare in pace. Voleva a tutti i costi evitare di pensare di essere rimasta sola quella sera, o di aver tradito sé stessa, i suoi principi e la sua fede di prima. Insomma l’onda la prese con la mente pesante di sensi di colpa a stento repressi o addirittura nascosti. Concetta era alta e aveva il seno prosperoso. Dal seno in giù era abbastanza magra. Aveva il naso leggermente aquilino e deviato a sinistra, ma nel complesso aveva un viso caldo e piacente. Mi hanno raccontato che l’onda le prese la vita e le deturpò il naso.
Quando l’onda arrivò sulla città, Maria era in preda ad una forte depressione ed era stata ricoverata in una clinica che era a monte della città. Credo che la chiamino Villa dei Tulipani o delle Ortensie … non so di preciso. L’onda arrivò sotto forma di poche notizie confuse. Il telefonino era quasi scarico. Maria lo senti squillare una volta e poi si spense. Gli psicofarmaci e la depressione la fecero rifugiare in un angolo tra due pareti, mentre tutto intorno a lei l’agitazione e la baraonda crescevano. Paola, la figlia, che a causa dell’onda ha perso il marito, il padre e il fratello, da quel giorno non riesce più a perdonarla per il torpore e l’apatia che l’inchiodarono per tutto il tempo al muro della clinica. Non riesco a biasimarla.
Io, quel giorno, mi trovavo in automobile e stavo andando città. Come al solito ero ossessionato dal pensiero di Caterina e dei suoi molteplici amanti. Mentre la mia autovettura scendeva verso la città, l’acqua arrivò a lambire le ruote e si fermò. Scesi e guardai il disastro mentre le acque si ritiravano dalla città. Pensai che, come quei moscerini schiacciati sul mio parabrezza, anche io avevo un destino unico e un ruolo in questo mondo. Mi grattai la testa e pensai che il diario di Caterina, con le storie di tutti i suoi amanti e del vero motivo per cui mi aveva lasciato, galleggiava da qualche parte insieme al cadavere di mio padre.

C’erano molti bambini che piangevano nelle strade e poco tempo da perdere.

sabato 18 agosto 2007

Principio speranza

L’impulso dello sperare si dilata, amplia l’orizzonte dell’uomo invece di restringerlo. L’esercizio di questo impulso richiede uomini che attivamente si gettino dentro il divenire di cui sono parte. Esso non sopporta una vita da cani, che si sente solo passivamente gettata nell’essere, in una situazione indecifrabile o meglio lamentosamente riconosciuta.

Da Il principio speranza di Ernst Bloch

E' forse disonesto citare un autore di cui non si è letto quasi nulla se non un piccolo paragrafo in un libro di filosofia del liceo. Tuttavia voglio metterlo nei mie futuri programmi di lettura, perché è importante sentir parlare e parlare di speranza.

Mirko al castello

Questo raccontino risale a qualche anno fa. Purtroppo non annoto le date e non mi interessano molto devo dire. Oggi come oggi, non scriverei più questo racconto nel modo in cui l'ho scritto, anzi ho in mente di rimaneggiarlo radicalmente, per cercare di salvare quanto mi corrisponde ancora oggi. Non mi sento più un lavacessi di castelli, quanto piuttosto un cane che tira la slitta (c'è sempre qualcosa di autobiografico nelle cose che scriviamo....). Quindi qualche progresso nella scala sociale l'ho fatto :-)





MIRKO AL CASTELLO


Osservando con attenzione quel castello a forma di maestoso parallelepipedo nero, come faceva sempre prima di entrare a cercare lavoro, Mirko cercò di indovinare se il castellano era un uomo avaro o generoso. I padroni generosi di solito pretendono dalla servitù una generosità simile alla loro, cosicché alla fine i loro servi, proprio a causa di quella qualità innestata per doverosa imitazione, rimangono più poveri degli altri. Gli avari invece pretendono sempre un minuto in più di lavoro e quando hai fatto il minuto ripetono la richiesta fino a quando non siano passate molte ore dalla fine pattuita del tuo servizio. E poi dimenticano di retribuire alle date prestabilite e glielo si deve ricordare, sempre con la massima cortesia dovuta ai padroni; ma anche così ti guardano male e sperano ti poterti presto licenziare, trovandoti in fallo per qualche cosa, senza doverti pagare l’ultima mercede.

Così egli cercava una via di mezzo; uno che gli permettesse di vivere decorosamente del suo lavoro senza dover dare del tempo in più, e senza essere costretto a fare il doppio dello sforzo per disobbligarsi. Voleva diventare invisibile, come era appropriato all’umiltà della sua mansione.

Faceva il lavacessi nei castelli Mirko e gli piaceva il suo lavoro. Oltre a questo, gli piaceva far l’amore con le serve e inventare strane storie su macchine volanti e uomini meccanici. Era molto magro, ma aveva un fascino notturno, capace di procurargli molte avventure con donne scontente del proprio quotidiano lavoro e della propria vita monotona. Inoltre le sue storie sugli uomini meccanici, raccontate alle giovani, assumevano sempre delle ipnotiche sfumature erotiche, che aveva grandi effetti sulle donne che affollavano il suo giaciglio.

Di giorno, invece, quelle stesse donne lo guardavano con una punta di dispettoso disprezzo e mai avrebbero ammesso le une con le altre di essere state ospiti di colui che provvedeva a tenere pulite le latrine del castello. I loro sguardi anzi lo sfuggivano. Mirko, il lavacessi, non si lamentava mai di tutto ciò, attendendo al proprio lavoro con filosofico impegno.

“Avrei voluto continuare a dipingerti con gli stessi colori vivaci di prima. Ma oggi ho compreso che il tuo compito in questo castello ci allontana oggi e ci allontanerà per sempre. Eppure ancora vorrei scaldarmi alla tua umanità, tanto è il freddo che sento. Così disse la signora del Castello a Mirko, pensando che in natura invero non esistono colori ma solo occhi: i soli pittori, imbianchini, decoratori e coreografi, artisti,un spesso tanto fantasiosi che riescono a fare di un lavacessi un eroe pieno di dolcezza e carità.

Lei si era sorpresa a spiarlo, qualche mese prima, mentre lui puliva il suo cantero. Le feci della signora emanavano ancora un forte odore perché era malata. I servi le portavano il cantero in stanza ad ogni sua richiesta e alla fine Mirko andava a riprenderlo, lo portava via, lo svuotava lo puliva e deodorava, infine lo rimetteva a disposizione della servitù, pronto al prossimo uso.

In questo modo aveva conosciuto le feci della signora e le aveva quasi trovate interessanti, e, a dire il vero, aveva trovato ancora più interessante l’espressione da ladra di quella donna che lo spiava dalla porta socchiusa. Lui aveva odorato con un gesto appariscente e lei aveva riso. Lui aveva visto e lei sentito.

I desideri spesso non si lasciano contenere da piccoli inconvenienti pratici, come le distanze. La Signora abitava all’ultimo piano del Castello e il lavacessi al più basso e nascosto. Un castello, tuttavia, è pieno di nascondini e di passaggi segreti, una vasta teoria, regno incontrastato di spie, assassini e amanti. Così dopo ben poco tempo lui si era ritrovato nel letto di lei, malgrado questo contrastasse con la sua prima regola di evitare e disprezzare le padrone, almeno come amanti.

“Ci sono comunque molti colori dentro di te, anche se vanno cercati e braccati come un cacciatore fa con le sue prede; anche se sei ferito, anche se questa magnifica verga ha un po’ l’aspetto di un fungo velenoso”, disse lei, mentre appoggiava le sue labbra al pene di Mirko.

Ma tutti e due sapevano che la loro storia d’amore non sarebbe continuata per sempre. Ci sarebbe stato presto un fatto nuovo, un imprevisto. Magari non l’ira e la gelosia del padrone, ma un altro evento che avrebbe impresso alle loro vite una di quelle brusche accelerazioni che ti fanno partire come un proiettile da dove sei e ti conficcano in un punto imprecisato del tempo del tuo tempo, che può essere anche molto distante da dove ti trovavi prima.

E così fu.

Il Castello era partito e ormai da terra i contadini lo vedevano come un puntino nero alto nel cielo.

Il padrone aveva catturato il drago durante la caccia e si era messo in testa la folle idea di serrare le fauci della bestia così da fargli accumulare il fiato rovente dentro i polmoni. Avrebbe poi liberato il fuoco del drago istantaneamente per incanalarlo attraverso il condotto che dai cessi del Castello portava alla fossa di scarico dei liquami, come in un motore a reazione. Il castello si sarebbe alzato e partito in viaggio alla volta della Luna.

Essendosi forse associate nella mente del padrone le idee di fogna, di fuoco e di cessi, aveva dato a Mirko il compito di pulire la prigione del drago incatenato; può darsi che ciò fosse successo perché un istinto aveva fatto sospettare al signore del Castello il tradimento della moglie col lavacessi ed egli, in segreto, sperava che il fuoco del drago lo bruciasse o che un colpo d’ala lo decapitasse.

Gli occhi del drago furiosi spesso incontravano quelli di Mirko, che era innamorato e ferito per l’abbandono della signora che ormai non voleva più vederlo, tornata ai molti amanti di prima.

La signora, il giorno dopo in cui il suo sposo, con fare baldanzoso, le aveva annunciato la sua intenzione di partire alla volta della luna con tutto il castello, la sposa, i figli e la servitù, aveva temuto per la vita sua e per quella dei figli e aveva pensato che una tranquilla vita con Mirko, come moglie del lavacessi di un qualche castello, sarebbe stata preferibile a qualsiasi morte per opera del drago, del volo o di un abitante lunare. Ma ad un lavacessi che vive a stretto contatto e conosce come e più di sé stesso i più fetidi escrementi umani, non si può chiedere tanto. E così Mirko aveva rifiutato la fuga, attirandosi l’odio e il disprezzo della padrona.

“Non posso, signora, ho un contratto e ho paura. Preferisco morire che portare su di me il pesante fardello di una donna e dei suoi figli. Ho un contratto e ho paura. Io sono un umile servo e farmi marito della mia padrona non posso. Non posso, signora, perché dentro di me non so se sia amore e non so se posso sfidare, il padrone ed il drago. Ho un contratto e preferisco morire piuttosto che essere padrone assoluto di un gesto di sfida”.

Ora egli sentiva in cuor suo di non avere più nulla da fare in quel posto e se ne sarebbe di certo andato, se al Padrone non fosse venuta l’idea di tenere tutte le uscite chiuse fino al giorno della partenza. I suoi uomini e la sua discendenza avrebbero popolato la Luna. Nessun tradimento poteva minare un progetto così grande e così folle.

Fu così che nel giorno stabilito le fauci del drago furono lasciate libere e la sua grande bocca si aprì lasciando che il fiato rovente defluisse libero verso le fondamenta. Il Castello si alzò. La sua struttura fu scossa. Le vibrazioni si fecero sempre più forti e tutti temettero che tutto crollasse o esplodesse. Eppure si alzò. E salì. Arrampicandosi nell’aria. Scalando le nuvole e ancora velocissimo ancora oltre, più su. Il cielo lontanissimo si arrendeva a poco a poco all’ascensione, ma sembrava infuriarsi vieppiù per quel Castello che andava conficcandosi nella sua carne azzurra e bianca. Il drago non sapeva fermare il fuoco che gli usciva dai polmoni e lo sputava sempre più fortemente verso il condotto. Sembrava che la portata aumentasse indefinitamente. Nessuno aveva potuto calcolare con esattezza il tempo della costrizione necessario a raggiungere la spinta e la velocità necessarie alla partenza e così adesso il fuoco sembrava eccessivo e si trasformava in un’interminabile accelerazione e in tremori troppo grandi per la vetusta struttura del Castello. Lo stesso corpo del drago non poteva resistere a tanto.

Così, alla fine, in una fragorosa esplosione, si la pancia del drago si squarciò e il fuoco sgretolò e si mangiò il castello. Tutti sentirono vicina la morte. Non v’è salvezza dal fuoco, né si scampa a una caduta da una così grande altezza. Gli occhi di Mirko videro strane cose nel vago tentativo di evitare la consapevolezza del presente. Così la speranza del lavacessi si puntò sul seno della sua signora e amante, per la quale, come per sé stesso, non poteva trovare né sognare salvezza.

Ma fu l’imprevisto a salvarlo, perché, durante la caduta, si trovò ad urtare contro un lembo dell’ala del drago e l’afferrò.

E dolcemente planò attraverso l’atmosfera rallentato dall’ala del drago senza conoscere il mondo verso il quale scendeva.

Toccò terra e poi si alzò Mirko, l’uomo alto e magro coi capelli neri e il viso dolce. Il castello era ormai polvere e piccoli oggetti e resti sparsi su quella desertica superficie lunare.. In lontananza vedeva degli altri scendere su lembi delle ali del drago.

In quel posto tutto gli sembrò nuovo e sentì il bisogno di chiamarsi con un altro nome. Abbracciò gli altri che man mano incontrava e non ricordò più di essere stato un servo.

Trovò il corpo senza amore della sua vecchia padrona e comprese di averla amata e di non aver avuto, solo per un soffio, il coraggio di portarla via con sé.

Questo fatto, però, sulla Luna, non aveva poi tanta importanza.

Vita da bradipi (repost del 20/10/2006)

Il mio metabolismo e i miei passi sono lenti. Spesso anche il cervello. Tuttavia ci sono dei pensieri che si rincorrono e si accavallano. Una giornata come oggi è troppo ricca di cose per non parlarne.
La signora al bar mi ha chiesto di quali pensieri avessi piena la testa e mi ha fatto riflettere: sono molti.
Oggi ho visto una bambina e la sua mamma appena meno bambina. E ho visto la zia che sembrava la mamma di tutte e due.
Ho visto un microfono a forma di posacenere. Orribile. Se volevano fare un microfono per bambini, perchè non farlo a forma di peluche o di orsacchiotto.
Una donna che sembra una bambina è stata brava a parlare con una bambina. Lei, la vera bambina, a un certo punto ha detto, che aspettava solo qualcuno che la facesse parlare: questo mi ha fatto impressione. Sembrava parlare del passato ma in realtà parlava del presente.
La stessa donna tuttavia mi dice spesso delle banalità e altrettanto spesso io rispondo con banalità. La comunicazione ovviamente non esiste. Esistono le comunicazioni. Ognuna di esse è unica e irripetibile. Ciò che ci si dice non lo si potrà dire mai più e questo mi fa pensare all'importanza di non sbagliare quando si comunica e, allo stesso tempo mi fa pensare all'impossibilità di non sbagliare.
Lo so bene che là fuori c'è un mondo intero. Io domani e dopodomani non penserò alle carte. Nemmeno lunedì mi verrà di pensarci. Io sono così. Solitario. Combatto a modo mio. Non sono un cavaliere. Non concludo tanto. Capacità di sopravvivenza dei bradipi. Eppure, anche se qualche volta so essere bravo, come una donna, a far venire sensi di colpa, a modo mio "ti" "ti" "ti"... voglio bene.
Marmellata d'arance. Se "potessi" ti sposerei e avrei dei bambini con te e accetterei persino che tu avessi delle storie con altri. Da te solo da te lo potrei accettare. Perchè so quanto sei complessa e "nutriente". Oggi non ti ho sentita ma ho letto ciò che mi hai mandato. Si mi piaci, si ti voglio bene.
Guardarsi allo specchio e pensare che dietro ci può essere qualcuno che mi guarda. Parlare al maresciallo spione che potrebbe aver piazzato delle microspie (ma che paranoico che sono, ma che paranoici che stiamo diventando). E' la società dei rality: E' tutto un reality.

venerdì 17 agosto 2007

Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità (Epicuro)

Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più.

Dalla lettera a Meneceo

Il metodo ottuso

Oggi mi son sentito ottuso, più del solito. I sensi non sono nè taglienti nè acuminati. Stamattina pensavo di fare critiche al sistema, ma di sera meglio stare un po' a guardarsi allo specchio e guardarsi come si è.
Ecco non mi sento bello, non mi sento intelligente, non mi sento sicuro. Ho messo il piede in fallo da qualche parte e mi fa male la gamba, oltre ad avere sonno.
Cosa avevo pensato di criticare nel sistema stamattina?
Non me lo ricordo quasi più... Forse criticavo i tanti posti di lavoro inutile creati dallo Stato e dalla sua corte di enti subordinati.... ai tanti "articolisti", ai tanti lavori "socialmente utili", alle tante postazioni 118 create in Sicilia solo per creare posti di lavoro.
A dire il vero non sono solo io ad essere ottuso, ma anche i politici, gli amministratori, la nostra classe dirigente in toto.
Non che sia tratti di stupidi, anzi direi che sono parecchio furbi. Solo che tutti, di destra o di sinistra, sembrano essersi accordati nell'usare questo "metodo ottuso". Non si guarda al futuro, mai. Mi diceva un mio amico, vicino all'ambiente, che Alitalia sta affondando sotto il peso di Malpensa e tutti lo sanno ma nessuno avrà il coraggio di prendere seri provvedimenti.
Solo che così facendo, visto che le risorse non sono infinite, si nutre l'improduttivo a discapito di ciò che funziona. Un altro esempio del "metodo ottuso" che mi viene in mente è il ticket. Ben venga sulle medicine inutili o di dubbia utilità. Ma perchè si paga una tassa sui farmaci che agiscono dal lato della prevenzione. So che si paga il ticket sulla cardioaspirina, che costa poche lire, mentre un semplice calcolo meramente economico ci dovrebbe impegnare ad evitare, ogni volta che sia possibile, costosissime degenze in ospedale e incoraggiare la gente a prevenire le gravi patologie con ogni mezzo che abbiamo. E questo anche senza mettere in conto la cruda sofferenza.
Potremmo parlare anche della ricerca scientifica. Quella è il futuro. Studiare la natura e i concetti filosofici e matematici assicura la vita e la prosperità delle nuove generazioni, anche se non si capisce subito l'utilità pratica di quello che si studia. Provare per credere e poi nella storia è sempre stato così.
Ma sono parole vuote e forse prive di significato. E' nella pratica quotidiana e non nei blog che si fa vivere la società, nel fare e non nel dire. Qui faccio solo il punto e cerco la direzione della marcia. Lo scrivo per me questo strano diario, anche se non mi da fastidio che qualcuno di tanto in tanto lo legga.
Dicevo la direzione, la via, il valico, il ponte e quant'altro: io sono sempre il cane di Jack e la strada faticosa la considero vita.

Poesiadotto

Ho questa idea che la poesia (in senso lato) non sia una prerogativa dei letterati e mi piace immaginare che questo poesiadotto si diriga verso chi vuole con capriccio e casualità. Prima o poi anche da me potrebbe sgorgare un po' di poesia, nera e sporca come il petrolio, senza nessun merito da parte mia, se non quello di non aver paura a scrivere quello che sento.
E la molla di questa "poesia" o quello che è (scempiaggini e balordaggini), può essere anche solo la vanità... come dice l'uomo che parla all'assemblea: "vanità delle vanità, tutto è vanità", includendo implicitamente nel "tutto", anche il suo profondo discorso.

giovedì 16 agosto 2007

Palestre

Smettila subito di scolpire il tuo corpo, perché, ricordati, che anche con un solo colpo di scalpello si può rompere tutto...

La droga come altre cose

La droga come altre cose...

Lo Stato Mamma (che accudisce i suoi figli persi e li accudisce anche quando sbagliano e anche se continuano a sbagliare li difende).

Lo Stato Padre (con la verga in mano sempre a picchiare chi sbaglia, fino a uccidere o, almeno, fino a quando non sia riuscito a debellare la personalità )

Lo Stato come genitore incoerente (che detta delle regole, ma poi va al bar a ubriacarsi)

Lo Stato come coppia di genitori adottivi gay (due uteri o quattro testicoli, mai una giusta proporzione)

mercoledì 15 agosto 2007

Non tutte le maledizioni riescono con il buco

«(Baruch de Espinoza) …sia maledetto di giorno e maledetto di notte; maledetto sia quando è sdraiato e maledetto sia quando si alza. Maledetto sia quando esce e maledetto sia quando entra. Possa il Signore non perdonarlo o accoglierlo mai. Possano l’ira e la riprovazione del Signore ardere d’ora in avanti contro quest’uomo, gravarlo di tutte le maledizioni scritte nel libro della legge, e cancellare il suo nome da sotto il cielo…»3.

La famiglia di Marino

Una nuvola viaggiò in poche ore dal sud al nord di quel nuovo cielo. Marino non aveva mai visto una cosa tanto bella. Ogni cosa in quel mondo gli dava un piacere estremo ed allo stesso tempo, calma e benessere.

Lui però non ricordava come vi era arrivato. Non sapeva nemmeno se avrebbe dovuto muoversi, andare da qualche altra parte. Il tempo sembrava scorrere normalmente. Il suo orologio ticchettava mentre i suoi ricordi svariavano qua e là.

E usò il tempo che aveva per versare tutte le parole nello spazio della coscienza, in fila ordinata. Di quasi tutte ricordava il suono ma non riusciva più a ricordare il senso. Pensò al dolore, pensò al concetto di pianto, al concetto di fame. Ma la mente gli andava sempre alla mamma che gli dava da mangiare sotto la pianta del limone. Il pane inzuppato nel latte o bagnato e ricoperto di zucchero sapeva di buono mentre lui e lei erano seduti all’ombra sopra quel muretto e tutto era in pace con tutto.

E poi la mamma col viso corrucciato per qualche sua marachella e lui che provava angoscia per la possibile perdita del suo amore. Ma angoscia era un termine senza senso in quel mondo e non riusciva più a ricordare la sensazione del soffrire. E altri ricordi si ricongiungevano a quello, suoni e odori, di quand’era bambino fino ad allora ricoperti del fastidioso brusio della sofferenza. Vedeva alberi scintillare fuori e quella luce gli bastava. Comprendeva si e no il perché, ma tutto il suo essere era pieno di amore e gratitudine.

Poi pensò alla tristezza di tutte le volte che si era sentito solo e pensò che malgrado tutto, tutte le persone che aveva conosciuto e che aveva conservato dentro di sé, oggi, in questo nuovo luogo, gli bastavano. Andava avanti e indietro con la mente durante tutta la sua vita e le cose ora avevano lo strano scintillio azzurro di quel luogo. Ma tutto, gli amori, i litigi, i dolori alla cervicale, le umiliazioni inflittegli dal suo capoufficio, ora gli apparivano sereni e necessitati sviluppi della sua esistenza.

Carmen, Amore!

“Signora suo marito è morto, il cuore gli batte ancora, ma il cervello ha smesso di funzionare al momento dello schianto”. Carmen era angosciata. Aveva quel bambino dentro di sé e tutte quelle cose da fare a casa. Gli sembrava di avere troppa roba da stirare. “E che cazzo!” stava perdendo tempo. Lo schianto, il cuore che batteva piano. Il cervello spappolato da qualche parte. Era una sensazione strana, avrebbe voluto andare a casa sua e mettersi a preparare qualcosa da mangiare. Per lei, per Marino. Un’insalata, una mozzarella, due panini. Sentiva un’irresistibile voglia di chiedergli cosa volesse da mangiare. E la sua mente si fissò nel forno della sua cucina e pensò che avrebbero espiantato il cuore di suo marito. Aprì il forno con la fantasia e vide il suo cuore, il cuore di Marino battere in quel posto improprio e sbagliato, quasi come il petto di un altro. E la luce si negò.

E poi le venne voglia di fare l’amore con lui. Avrebbe voluto renderlo felice, accarezzarlo, dargli tutto il piacere possibile. Poi dopo un attimo pensò al mare e si straniò completamente dalla realtà mentre il cuore le batteva così forte da farle tremare la lingua e il palato.

Il bambino dentro di lei.

Il mondo era un’oscurità informe, ma la sua mente produceva di tanto in tanto delle luci e dei colori già scritti come un vecchio software, da qualche parte, nei suoi geni. Poi sentiva qualcosa ma non era ancora in grado di distinguere sé dal battito continuo del proprio cuoricino e di quello della mamma. Sicuramente attraverso il liquido amniotico arrivava ai suoi neurorecettori qualcosa delle sensazioni e dell’immagine del mondo di sua madre. Anche lui era pieno di ansia. Anche a lui arrivava qualcosa del padre morente, ma la coscienza ancora non si era formata e non possedeva neanche i nomi per quelle cose: padre, dolore, morte. Era proprio la funzione del dolore che ancora non era completa, sicché i suoi organi erano influenzati dal dolore ma era solo una sensazione di battito accelerato, una specie di sballottamento, una cosa lontana dal dolore vero, quello che ha una parola per definirlo e contenerlo. Non ci sarebbe stata memoria di quell’evento che lo aveva un po’ disturbato. Il bambino si mosse e il suo calcio sveglio sua madre dalla trance. Neanche quell’urto aveva ancora un nome. Solo un moto come un altro dell’incoscienza che va lentamente alla conquista di un corpo.

lunedì 13 agosto 2007

Meccanica quantistica e vivisezione

Taglio e cucio da wikipedia alla voce " Paradosso del gatto di Schrödinger"
Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme con la seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore di Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma anche in modo parimenti verisimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si è disintegrato. La prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso (E. Schrödinger: Die gegenwärtige Situation in der Quantenmechanik [La situazione attuale della meccanica quantistica], Die Naturwissenschaften 23 (1935) 807–812, 823–828, 844–849; citazione a pag. 812.)
Ora, mi chiedo, come mai non ha pensato il nostro eroe di fare direttamente l'esperimento su sé stesso? Che ci avrà trovato di burlesco? Spero che nessuno abbia mai pensato, o pensi mai, di fare l'esperimento per davvero...

Dalla mia più tenera età, una freccia di dolore si è piantata nel mio cuore. Finché vi rimane, sono ironico – se la si strappa, muoio. (Kierkegaard)

L’angoscia è la vertigine della libertà, diceva il filosofo. Per me Kierkegaard è il filosofo di Abramo. Ancora non ho ben capito perché il sacrificio di Isacco è così diverso da ogni altro atto di fede un uomo possa compiere. Doveva esserne convinto, lui, ma io lo sono meno. Comunque non credo che sarei mai capace di arrivare a sacrificare il mio unico figlio, tanto desiderato e conquistato, in nome della fede. Ma, d’altra parte, io non sono Abramo e, nella mia fede, ho fallito così tante volte che, in questo momento della mia vita, mi sorprendo sul punto di perderla.
Vi è però nel nostro, un’idea che si impone per la sua evidenza. L’angoscia, quella vera, quella che ti prende alla gola, che ti fa sentire pieno di bruciature e di scosse elettriche, è qualcosa che si svolge nel singolo e fa sospendere ogni ozioso pensiero sulle categorie generali dell’essere. Magari il mio dolore potrà non essere il tuo, e, quindi secondo il pensiero di Parmenide, non essere, ma ti assicuro che quando fa male, mi dimentico di tutte queste cose futili, non sono affatto cosciente del mio inganno dei sensi, anzi esso assurge a dignità di realtà ultima, assoluta e suprema. Il dolore spinge ad agire più di ogni altra cosa.

domenica 12 agosto 2007

Istruzioni per l'uso. Santi e Madonne.

Prendete uno che dice di aver visto la Madonna, dategli del matto, affermate, senza mezzi termini, che le sue sono allucinazioni, indotte o da follia o da qualche sostanza psicotropa. Se lui resta calmo sereno e paziente, attaccatelo sulla sua fede. Ditegli che è un bugiardo come il dio di cui è seguace e che il suo unico intento è quello di truffare e ingannare le persone semplici. Se ancora resta calmo e paziente, mandate un vostro amico che lui non conosce, e fategli chiedere, con tono molto calmo e neutrale, se accetti che, durante la visione, si facciano due o tre misurazioni e indagini con apparecchi e metodi scientifici, per verificare qualche ipotesi alternativa a un vero evento soprannaturale. Non importa che non accetti o che vi consenta. Se, in questa ultima ipotesi, non vi da del miscredente, del blasfemo o dell'inviato di Satana, potreste anche cominciare a considerare l’ipotesi che il fenomeno sia genuino.

venerdì 10 agosto 2007

Alla mia Caterina (qualche anno fa)

L’ultima telefonata… è avvenuto, si è svolto, abbiamo parlato. Tu sei andata in Sardegna, io credo, con lui.

Il mio problema è che mi muovevo come uno troppo piccolo, oppure che ho penato tanto per vederti andare via. Il mio è un problema matematico. Sai, è un sistema autoreferenziale che non riesce a concludersi e o a decidersi; oppure un problema fisico: un gatto minacciato da una rivoltella, collegata a una particella che decade e non decade e lo fa in una sottilmente indeterminata ironia quantistica.

Io che per pensare rettamente dovrei saper calcolare il sentimento che ti suscita la luna e non considerarla solo un sasso bitorzoluto, forse calpestato da astronauti e comunque governato da quella stessa legge di gravitazione che ci tiene strettamente alla terra. Tu parlavi di bellezza. E questo discorso non mi sembrava molto in contraddizione con la mia meraviglia e stupore per il moto dei corpi celesti. Solo che non ti interessava. Solo che io ugualmente rimango affascinato dai tuoi occhi e da come tutto il mondo srotolato non ricade su sé stesso.

E della tua voce colorata di verde e blu notte conservo un ricordo che va affievolendosi a livello cosciente ma si incarna in sempre nuova disperazione in quanto cerco cerco e continuo a cercare, ma trovo solo geometrie costruite da uomini e simmetrie di corpi anonimi estranei. La strada, i ciottoli, il culo delle donne che non amerò mai…

Ho l’impressione di aver arredato la tua vita, certo a un livello più alto, eppure non vorrei attribuirti banali considerazioni su utensili e mobili.

Ora comunque ho imparato che l’attrazione è una forza inerte e che gli uomini di sesso opposto o uguale debbano in qualche modo assumere la posizione, come in una specie di kamasutra sentimentale che ricalca e rimescola ancestrali prove di forza.

Credo che saper fare l’amore e quel che più conta farselo piacere sia un fatto che ha a che vedere con la matematica. Certo si può contare mentre si fa l’amore. Uno due tre (fortunato chi ci riesce). E tutti i piccoli gesti come le carezze e i sospiri possono essere contati e numerati e poi anche archiviati. E anche quando ti penetro in qualche modo devo contare per non lasciarmi andare, il che visto che tu mi lasci così, così sarebbe stato gravissimo.

Io l’ultima volta mi ricordo di aver contato i tuoi occhi. Erano due come al solito. E ho anche misurato gli angoli. Certo credo non fossero perpendicolari ai miei …

Rasoio da affilare

Il rasoio di Occam è uno di quegli strumenti che tutti, uomini e donne, dovrebbero usare molto più spesso di quanto in realtà si faccia, anche a proposito di rapporti umani:
Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (Non aggiungere elementi quando non serve).

Occorre per il dire e il pensare che l’essere sia (Parmenide)

"Conoscerai la natura dell’etere e nell’etere tutte
le stelle, e della pura e lucente lampada del sole
le opere distruttrici e da dove ebbero origine,
apprenderai le errabonde azioni della luna dall’occhio rotondo
e la natura, e conoscerai inoltre il cielo che tutto circonda
da dove nacque e come la Necessità guidandolo lo costrinse
a tenere i confini degli astri"
(Parmenide, frammento n. 10)

I sensi ci creano effettivamente confusione, mostrandoci un mondo in continuo cambiamento, mentre in realtà "l'essere è e il non essere non è"? L'Inizio e la Fine sono indifferenziatamente aspetti dell'essere? Dobbiamo negare il divenire, che pure è una delle maggiori evidenze della nostra vita? Mi trovo di fronte a discorsi complicati, probabilmente al di fuori della mia portata. Eppure penso che non è un problema solo mio: Appena si va oltre l'orizzonte della vita quotidiana, orientarsi diventa complicatissimo e anche, di conseguenza, le parole per indicare i percorsi diventano oscure e difficili a decifrarsi.

Ad ogni uomo è concesso conoscere se stesso ed essere saggio. (Eraclito)

Sotto le stelle della Grecia antica un cospicuo numero di uomini cominciò a pensare alla vita e alla natura, interrogandosi in maniera libera da pregiudizi e preconcetti sulla realtà naturale. E non è nemmeno detto che quel pensiero sia stato superato, anzi forse, nel corso della storia, è stato solo complicato. Bisognerebbe prenderne esempio e ricominciare a pensare, a interrogarsi e ad essere curiosi, ciascuno secondo la propria mente e le proprie capacità.
A volte ho l’impressione che le persone colte, quelli che leggono, siano oggi più interessati ad approfondire ogni aspetto dei sentimenti e delle relazioni umani e pochi alla natura. Nella mentalità comune, vi è una sorta di separazione tra la società dell’uomo e l’insieme delle cose naturali, ma può essere che mi sbagli o che sia impreciso nella mia osservazione.
Tuttavia non mi sembra che questa separazione abbia ragione di esistere e che il disinteresse per la natura porti lontano.
Mi viene in aiuto il filosofo quando dice Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno. E io questo discorso, questa notte, vorrei applicarlo all'uomo che non sarebbe tale in un altro contesto che non fosse questa terra e questo mondo.
E visto anche che la natura ama nascondersi forse occorre perderci un pochino di tempo a studiarla e a studiare anche i metodi e i ragionamenti seguiti da altri uomini.
Io ho cominciato leggiucchiando qualcosa su Eraclito e confido, riguardo alle mie capacità, nel suo aforisma: Ad ogni uomo è concesso conoscere se stesso ed essere saggio.

giovedì 9 agosto 2007

Chiacchierate filosofiche sotto l'ombrellone

Ho la fortuna e l’onore di avere come amici Carlo e Gianni. Spesso andiamo al mare assieme e abbiamo l’abitudine di chiacchierare su scienza, fisica e filosofia e altre amenità del genere (almeno fino a quando un bel seno o un bel sedere, non ci distraggono dalle nostre allegre discussioni).
Premetto che nessuno dei tre può essere tacciato di intellettualismo, e per quanto mi riguarda, all’ultima misurazione del mio Q.I., sono risultato avere l’intelligenza di un operaio specializzato.
I miei amici sono sicuramente più intelligenti di me ma non scrivono blog...
Insomma ho pensato che anche qui potrei scrivere dei post, non troppo tecnici e non troppo eruditi, su scienza e filosofia. E’ un esperimento. Quando avrò io le idee più chiare, descriverò meglio ciò che intendo fare. Per ora vi basti questa vaga intenzione….

mercoledì 8 agosto 2007

Alfio e il bonsai

C’era un bonsai vicino la finestra.
Alfio lo guardò per un po’, si mise un dito nel naso, ne tirò fuori una cacchetta, la trasformò in pallina e la lasciò cadere a terra. Si alzò e aggiusto i pantaloni troppo stretti, tentando goffamente di tirarli più su. Era sudato, trasandato, malandato e puzzolento, capelli unti, con una sigaretta continuamente in bocca. Nell’ultimo anno gli era anche cresciuta una pancia rotonda, grossa e dura come un pallone di cuoio. Era un appassionato di siti porno e di certi giornaletti comici pieni di barzellette sulla “la passera solitaria” e altre amenità di tal genere.
Le tre del pomeriggio e tutte quelle carte di contabilità lo nauseavano come non mai. Era anche stanco perché aveva passato quasi tutta la notte precedente a masturbarsi davanti al computer. Vicino a lui era seduta Paola. Aveva sempre certe scollature la “collega”! Impossibile non avere un’erezione quando ci parlava, anche se lei lo spesso lo guardava con disprezzo nemmeno celato. A volte Alfio cercava di essere spiritoso e le raccontava qualche barzelletta sporca. Ma lei gli guardava la patta dei pantaloni rigonfia e disgustata si girava dall’altro lato, maledicendo il giorno in cui era capitata in quell’ufficio.
A volte Paola, con quel suo faccino da principessa sul pisello, gli diceva chiaro e tondo di essere schifata dalla sua volgarità e che uno come lui non se lo sarebbe preso neanche per tutto l’oro del mondo. Altre volte gli andava peggio ancora e, al primo accenno di battuta, il nostro uomo era investito da una sgradevole corrente di parolacce e insulti. Comunque riusciva a star contento, Alfio, pur tra l’incudine della denuncia per molestie da parte della collega e il martello della sua natura da maniaco sessuale principiante. Era d’animo tanto semplice e leggero che non coglieva mai o quasi il senso dei discorsi di lei e gli sembrava, anzi, sempre più evidente che fosse segretamente innamorata di lui e che faceva la difficile solo per strategia: in fondo le donne adottano spesso questa tattica perché non vogliono essere scambiate per puttane. E rideva di gusto (ma solo lui!) quando raccontava quelle sue barzellette sul latte-caldo-sperma. Poi capitava che né Paola né le altre donne dell’ufficio ridevano, mentre i suoi colleghi maschi ostentavano dei maligni sorrisetti di circostanza e tornava al lavoro deluso dalla mancanza di senso umoristico di quelli che lo circondavano. Pensava che avrebbe dovuto prima o poi raccontare una di quelle barzellette noiosissime e difficili da capire a causa del doppio senso. Ci aveva provato una volta al liceo, senza grossi risultati. Non ne valeva la pena: erano proprio loro a non sapere cogliere l’aspetto divertente della semplicità.
C’era un bonsai vicino la finestra.
Alfio aveva caldo ed era anche stanco perché aveva passato tutta la notte a masturbarsi davanti al computer. Un collega aveva anche detto che c’era puzza dentro la stanza, invitandolo a fare entrare un po’ d’aria. Si alzò e si avvicinò alla finestra per aprirla. Nel muoversi, grasso e incerto com’era, inavvertitamente diede una gomitata al bonsai. Quella pianticella cominciò a oscillare pericolosamente; Alfio cercò di afferrarla, ma nel farlo si squilibrò e inciampò in una pila di carte che si trovava per terra. Accadde così che il suo tentativo di salvare il bonsai si trasformasse in quello ancora più velleitario di aggrapparsi ad esso, quasi si trattasse di un albero grande, e come se afferrare il ramo dell’albero potesse salvarlo dalla caduta.
E il bonsai cadde. E Alfio rovinò su di esso. La sua schiena e la sua testa urtarono violentemente contro il muro. Il bonsai si sradicò dal vaso. Alfio continuò a cadere e precipitò sul bonsai. Sembrava che una tempesta di vento avesse trascinato un gigante su un albero grande, e invece erano piccoli tutti e due. Paola cominciò a strillare come se si fosse fatta male lei per la caduta di Alfio. Lui cercò di alzarsi e dalla bocca di Paola tracimò un grido di spavento quando vide un piccolo ramo di bonsai conficcato nell’occhio sinistro di Alfio, che si stava alzando senza ben capire cosa gli era successo.
L’occhio era perduto. Nulla da fare: dopo qualche mese di congedo per malattia, rientrò al lavoro con un occhio di vetro.
Tutti i colleghi erano andati a trovarlo. Anche Paola una volta. Tutti erano concordi nel dire che Alfio era cambiato dall’episodio del bonsai, faceva discorsi normali ora, parlando del più e del meno. Con l’occhio rimastogli, leggeva addirittura riviste serie. Qualcuno riferiva anche di aver visto un libro di poesie sul suo comodino in ospedale.
Alfio si era presto abituato all’idea di vivere con un occhio solo. Miracolosamente aveva accettato il fatto. Ma una strana malinconia cominciava a pervaderlo e a spingerlo a fare cose per lui inusuali. Un ramoscello di bonsai era entrato dentro di lui e gli aveva fatto perdere il cinquanta per cento della vista. Probabilmente era accaduto anche che qualcosa del bonsai sradicato fosse rimasto dentro di lui. Forse una scheggia nella cavità oculare, un microscopico pezzettino di foglia vicino al nervo ottico.
Tutti dicevano che era cambiato e anche Alfio si stupiva di essere cambiato e pensò di impazzire la sera in cui la vista del tramonto lo fece commuovere. Si era perso. Non capiva più niente. Prima di allora aveva considerato le donne un assemblato di organi sessuali. Ora trovava poetico lo sguardo di Paola, la quale continuava a guardarlo con una certa aria di superiorità, ma trovava sempre più divertenti, romantici e persino interessanti i suoi goffi approcci, fatti di fiori, cioccolatini e poesie. Certo era il solito Alfio di sempre e in qualche modo dava ancora a tutti sui nervi, con il suo occhio di vetro e la sua persistente puzza di sudore, ma nessuno avrebbe saputo fare a meno di trovare al tempo stesso tenero quell’uomo, divenuto nel frattempo magrissimo.
Vicino la finestra c’era ancora il bonsai. Un mezzo bonsai. Quello che rimaneva dopo il disastro. Alfio la mattina gli si avvicinava senz’odio e lo innaffiava. Vedeva e sentiva tante cose in quel bonsai e tutte doppie: due treni, due cani, due case, due madri, due cartoline arrivate dall’Australia, due mondi rotondi e due piatti, due margherite e due accendini, due innamorati e due coltelli e tante altre due cose. Con un occhio solo vedeva doppie tutte le cose.
Paola seduta al suo tavolo sognava un uomo che in fondo somigliava a quel nuovo Alfio, e comunque continuava a non vederlo. A volte però le capitava di ricordare le sue vecchie barzellette e trovava qualcosa di divertente e provocatorio in quelle battute sulla passera solitaria e sul latte-sperma-sapone di bellezza. Le mancava qualcosa. Sembra che di qualcosa del genere ci sia sempre bisogno come antidoto a un uso smodato del cervello.
Alfio, dopo aver dato l’acqua al bonsai e aver sorriso gioiosamente a Paola, tornava alla contabilità e quando si distraeva faceva pensieri di musica, matematica, poesia e si chiedeva spesso quale forma e quali dimensioni invisibili potesse avere l’universo in cui vivevano lui, Paola e il mezzo bonsai.
Ci fu un momento in cui sprofondò e forse capì. Poi la mente gli si richiuse e ridacchiò spensierato.

martedì 7 agosto 2007

Storia d'amore tra un sogno e una donna meccanica

Un giorno successe che un Sogno capitò nella terra degli uomini meccanici. Fu per curiosità o inquietudine che il Sogno, che non era sogno di alcuno o forse di alcuno era stato, assunse immagine e consistenza umane e si presentò con la forma di creatura incarnata agli abitanti di quel posto.
Il paese era molto bello: tutto funzionava splendidamente e le case erano pulite, tutte le finestre lavate, tutte le file ordinate. Gli uomini meccanici ignoravano il concetto di ritardo. Ignoravano cosa fossero egoismo, odio e prevaricazione.
Il Sogno scoprì presto che la diceria che gli uomini meccanici fossero freddi e poco fantasiosi era del tutto falsa. V’erano delle belle forme architettoniche negli edifici e gli interni delle case erano confortevoli e gradevoli anche dal punto di vista estetico. Anche gli uomini e le donne avevano un buon aspetto: linee progettate con armonia, volti ben disegnati che ispiravano fiducia e simpatia. Tutti gli uomini meccanici erano gentili e ospitali col Sogno e si prodigavano per farlo sentire a suo agio; così egli decise di fermarsi tra loro per qualche tempo.
Venne la sera e il Sogno cominciò a stancarsi di quella innaturale forma umana. Così, accomiatatosi dai nuovi amici, tornò ad essere sé stesso. I suoi contorni divennero a poco a poco indefiniti e si sentì bene e rilassato; si dimenticò di essere una delle cose di quel mondo e divenne un po’ di tutte le cose. Volle tenere per sé un briciolo di coscienza per godere ancora un po’ dell’osservazione e della conoscenza degli uomini meccanici. Invisibile a tutti, non si sentiva affatto indiscreto, perché il Sogno per sua natura vive dentro la testa della gente, e anche quando si stacca e assume vita autonoma, conserva non poco di questo suo carattere.
Fu così che il Sogno incontrò la donna meccanica e, all'istante, capì di amarla.
Lei era sveglia, ancora sveglia in quell’ora in cui tutti i suoi simili con naturale regolarità dormivano. La donna aveva un difetto di fabbrica che non era stato possibile riparare. In quel mondo dove tutto funzionava perfettamente lei costituiva un’eccezione, un’oscena diversità che aveva fatto scervellare i più bravi ingegneri e aveva provocato un po’ di tristezza in quel posto sempre tanto sereno e ben funzionante.
Gli uomini meccanici non avevano parlato al Sogno dell’imperfetta creatura. Non per vergogna ma perché, come i ritardi e gli errori, le imperfezioni erano estranee alla loro mentalità. Riuscivano certo ad afferrarne il concetto ma non ad incorporarne il senso. Preferivano evitare l'idea. Non dimenticavano certo l’esistenza di quell’unico malfunzionamento ma piuttosto si scordavano di parlarne e di formulare pensieri sul fatto.
Il Sogno invece considerava i malfunzionamenti come parte integrante della sua struttura profonda. Egli era arrotolato, incapace di trovare il suo inizio o la sua fine. Spesso il tempo si confondeva, confluiva in anse, si spandeva in rivoli. Nemmeno il Sogno capiva bene il senso di un difetto, di un ritardo o di malfunzionamento. Egli non aveva parti funzionanti, ma cangianti. Colori mutevoli. Nevicate sotto il sole. Uomini volanti dipinti d’azzurro. Gli uomini meccanici erano simpatici ma totalmente diversi da lui, tranne quell’unica difettosa eccezione, con bei capelli di paglia su quel dolce viso di plastica, occhi di vetro grandi profondi ed espressivi, belli come solo quelli di donne di carne rarissimamente riescono ad essere.
La donna meccanica era addolorata, seduta. Conteneva tra le rotelle del suo cervello a ingranaggi la conoscenza di milioni di libri ma non comprendeva ancora il suo difetto di fabbrica. Era piccola, come una spina nella carne, la sua imperfezione ma le provocava molto dolore. Le impediva anche il sonno, ma non si sapeva dov’era né come guarirla.
Il Sogno decise di manifestare la sua forma umana e la donna meccanica sorrise a vederlo e fu ricambiata del sorriso. Essi si intesero all’istante e capirono di avere la possibilità unica e rara di guarirsi e ripararsi a vicenda. Il Sogno senza logica e senza ragionamento si tuffò nella donna e in lei si avviarono meccanismi e si azionarono gradevoli ronzii di correnti elettriche. Una nuova onda portante, uno spruzzo di acqua di mare.
L’amore onirico-meccanico fu come la guarigione di un uomo bizzarro che non sa uscire dalla sua malattia, se non in modo originale e imprevisto. Come i fuochi di artificio, come l'ultima bomba che esplode.
E tutti videro che di fronte al vero amore non c’è bisogno di tempo, né di paura o di prudenza o altro calcolo astrologico o matematico che il vero amore avrebbero ritardato e ucciso.
Il vero Amore dura tuttora ed entrambi si amano ancora e vivono nel paese popolato dagli uomini dai dodici cuori. C’è un bel clima e tutti quei battiti di cuore fanno una gran musica.
La Donna meccanica ha un po’ di nostalgia del perfetto funzionamento del suo luogo natio, ma nella sua nuova casa, insieme al Sogno, non ha più provato dolore.

Il mondo è un panino con il salame

L’universo è rimasto piccolissimo, in equilibrio, immobile e immutato. Questi miliardi di anni, che gli scienziati hanno calcolato quale età del cosmo, non sono veramente trascorsi.
Giacomelli continuava a chiedersi come potessero conciliarsi i risultati della sua teoria matematica con l’apparenza fenomenica dell’universo. I suoi risultati erano in apparenza del tutto contrari a quanto affermato dalla fisica sperimentale di oggi, ma lui sapeva che erano veri, che la sua vita e tutti i fenomeni che sentiva, vedeva, odorava, toccava, non erano nient’altro che illusioni. Ed è anche un’illusione della psiche voler studiare tali fenomeni per mezzo di altre illusioni, come possono essere gli acceleratori di particelle. Non che tutto il lavoro svolto in millenni di storia della conoscenza fosse inutile, solo che aveva i suoi limiti.
Mentre, tra sé e sé faceva queste considerazioni, spense la luce dello studio e andò in cucina. La moglie si era addormentata ubriaca china sul tavolo e il figlio non era ancora rincasato. La famiglia Giacomelli era veramente piena di difetti. La moglie, beveva, il figlio fumava una quantità industriale di sigarette alla marijuana e aveva perduto ormai da tempo ogni senso dell’orientamento e ogni capacità di concentrarsi. Si perdeva in pratica tutte le sere sulla via del rientro a casa. Lui, Giacomelli, aveva appena perduto il lavoro per tutta una serie di distrazioni che avevano causato altrettanti disastri e, ormai, provava piacere solo a concentrarsi su quell’oscura matematica delle relazioni e delle antisimmetrie, che gli aveva fatto comprendere –è vero- la natura ultima del creato, ma non gli aveva procurato nessun riconoscimento o vantaggio sul piano pratico, anche perché, per quanto si sforzasse, non trovava il modo di comunicare la sua conoscenza agli altri.
A quel punto tanti pensieri gli avevano fatto venire fame. Ma non c’era nulla da mangiare nel frigo né in nessun altra parte di casa sua. Avrebbe almeno voluto scambiare due chiacchiere con qualcuno, ma era l’una di notte, la moglie era praticamente in catalessi, il figlio perso in chissà quale vicolo dei dintorni, il telefonino scarico di soldi e di batteria, il portafogli vuoto.
Si ridiresse allo studio, si sedette al tavolo e si stropicciò gli occhi. Poi ebbe un’intuizione: poteva certamente usare la sua matematica asimmetrica per cercare di creare le cose; sospettava che Dio avesse fatto lo stesso il primo giorno, il giorno prima, qualche istante fa o, forse, in quel preciso momento. Aveva certamente scritto un equazione e dall’equazione si era sviluppata una relazione di simmetria invertita e così il nulla si era trasformato nel cielo e nella terra.
Avrebbe iniziato con una cosa semplice, niente nuovi cieli e nuova terra: un bel panino con il salame gli sarebbe bastato, magari con un bel bicchiere di vino, se l’equazione non fosse divenuta troppo complessa da risolvere o se non ci fosse voluto troppo tempo per scriverla.
Quella notte fu la più faticosa della vita di Giacomelli. Creare un panino con il salame era facile solo a parole.
A quanto pare, non vi è molta differenza fra il trarre fuori dal nulla un intero universo e il fare un panino con il salame.
C’era anche un altro problema: il suo pc era molto lento, sia perché l’hardware era un po’ datato, sia perché il software installato non era adeguato, e ciò non tanto per la complessità quanto per la stranezza delle modalità di calcolo che egli era andato studiando e inventando. Per quanto si fosse sforzato di programmare nuovi software, una parte dei calcoli poteva avvenire solo nella sua mente e i risultati poi doveva digitarli e aspettare per lungo tempo che il computer li elaborasse in modo tradizionale e gli desse i risultati, per poi ricominciare da capo a pensare in quel modo astruso a cui era costretto dal tipo di matematica esotica che aveva inventato.
Alla fine, comunque, anche se era mattina e avrebbe preferito un bel cornetto alla crema e un caffè, arrivò alla conclusione. Il sistema aveva bisogno ancora di due simboli per essere completo. Non sapendo da dove partire, gli sembrò spiritoso scrivere su un foglio di carta
Id=Dio
pw= sono io
Fu allora che il panino con il salame si materializzò davanti a lui. Ed era anche molto buono, il mangiarlo lo ristorò e anche il gran bicchiere di acqua di rubinetto che si era creato accanto al panino, fu molto gradito, perché quando si ha sete non c’è niente di meglio dell’acqua per dissetarsi. Il vino avrebbe aspettato.
Intanto però lo circondava uno strano senso di immobilità, una totale assenza di ogni refolo d’aria, si alzò, passò in cucina e tentò di svegliare la moglie, ma lei non si mosse. Tentò di scuoterla ma non c’era verso di muoverla di un millimetro. Anche i suoi stessi movimenti, a dire il vero, gli sembravano irreali. Vide anche suo figlio che, come al solito aveva lasciato aperta la porta del bagno, fermo in una posizione innaturale innanzi al vaso, come se gli avessero scattato una foto in tre dimensioni mentre stava pisciando.
Gli venne allora un terribile dubbio e corse di nuovo dalla moglie, tentò di capire se stesse respirando e cercò vanamente di trovarle il polso. Era morta, era morta lei, suo figlio, lui stesso e tutto il suo mondo. Corse di nuovo allo studio e guardò il computer:
IL SISTEMA E’ STATO BLOCCATO A CAUSA DI UN ACCESSO NON AUTORIZZATO. CONTATTARE L’AMMINISTRATORE DEL SISTEMA.
Fu allora che Giacomelli si prostrò a terra e si mise a pregare.
Dopo qualche minuto, finalmente, sentì il fresco dell’aria che entrava dalla finestra.
Erano appena le otto e Giacomelli, ancora molto impaurito, diede un bacio alla moglie che frattanto si era persino svegliata sobria e uscì di casa a cercarsi un lavoro.

venerdì 3 agosto 2007

Pausa quaranta

“Penso di essere una persona molto umile” - disse Giorgia, alla signora Guida, aggiustandosi i capelli - “ma il mio lavoro so farlo meglio di chiunque altro”.
In realtà facevamo tutti lo stesso lavoro di segreteria al Liceo Scientifico Statale. C’era la segretaria, la dottoressa Mariani, e c’eravamo noi: io, Giorgia e Turi. Naturalmente il lavoro lo facevamo tutto io e Turi, mentre Giorgia si intratteneva in beate discussioni femminili con la preside e la dottoressa Mariani. Diciamo che anche io e Turi spesso eravamo occupati in altre faccende. Turi aveva fatto conoscenze sul messanger e io qualche volta, controllavo i miei investimenti in azioni, dal cui crollo aspettavo di riprendermi da oltre dieci anni.
Tutto sommato sarebbe stato un buon lavoro, se non fosse stato per i continui rimproveri della dottoressa Mariani, che attribuiva a me tutti i problemi dell’ufficio, perché con Giorgia aveva un rapporto troppo confidenziale e da Turi avrebbe voluto farsi scopare. Lo spogliava con gli occhi, gli guardava la patta dei pantaloni, arrapata, lo aspettava negli spazi stretti pur di farsi strusciare. Insomma, una vera e propria serie di agguati sessuali, conditi dalle minigonne della segretaria, da cui uscivano delle gambe secchissime e piene di capillari del colore blu intenso e dal suo ostentato ombelico, che invero si collocava abbastanza insignificante su un pancino grinzoso da cinquantenne annoiata dal marito.
Quindi io ero in mezzo ed ero single, il che a quarant’anni, induce nella gente un certo sospetto di un qualche non so che di difettoso, omosessualità forse o comunque qualche altro vizio o perversione. Anche Giorgia era single, ma secondo lei era tutto normale, perché quando si hanno determinate qualità, una certa intelligenza, lo spirito e la bellezza, è difficile trovare gente all’altezza. Spesso questo discorso lo faceva a me, non so se ingenuamente o per diretta volontà di umiliarmi. Se appena riusciva a stare due secondi zitta, iniziavo il mio solito discorso sul destino e sulla necessità di assecondarlo e, per consolarla, le dicevo che, visto che non aveva trovato la persona giusta, le toccava aspettare e che, prima o poi, il momento sarebbe arrivato anche per lei e allora si che lei e il suo uomo avrebbero vissuto felici e contenti.
La mattina, la dottoressa Mariani arrivava solitamente in ritardo e, accigliata, pronunciava un rapido “buongiorno”, entrava nella sua stanza e dopo qualche secondo la sentivo gracidare: “Filippo, può avvicinare per favore?”. Era spesso così. Le avevo detto di chiamarmi Filippo, sperando che reciprocamente lei mi avrebbe detto di chiamarla Laura. Questo non era avvenuto ed io evitavo di chiamarla. Purtroppo quel gracidio dal tono, ora fintamente paziente, ora palesemente arrabbiato, si ripeteva spesso durante le giornate. In tutte le pratiche che le avevo messo sul tavolo per la firma, notava che c’era qualcosa di errato e a me toccava di fare due o tre volte il lavoro, con la conseguenza dell’accumularsi di uno spaventoso arretrato. Anche perché le pratiche di Giorgia, dalla bella scrittura, dal grosso sedere e dalla bocca sempre aperta per mangiare o per cianciare, andavano sempre più o meno bene, ma erano poche, e quelle di Turi, che aveva sempre la testa persa nei suoi problemi di famiglia o in quelli delle sue amichette di chat, partivano spesso senza essere viste e tornavano quasi sempre al mittente per mancanza di qualche elemento essenziale, dimenticato o trascurato. Così spesso finivano sul mio tavolo e io dovevo evaderle altre due o tre volte prima che potessero partire di nuovo.
Ma tutto sommato il lavoro non era male. Non dovevo pensare molto, non mi era richiesto di parlare o chiacchierare per forza, uscivo regolarmente alle dieci per fumare una sigaretta e alle dodici per prendere un caffè e fumare una seconda sigaretta.
Giada era una studentessa di ventidue anni, alta, mora, dallo sguardo triste e dalle mani sottili, con un seno notevole, che parlava poco, ma non diceva mai nulla di insignificante. Si era iscritta al quinto anno e nessuno sapeva da dove venisse e perché una ragazza così intelligente fosse così in ritardo con il diploma. Erano le dodici e io, secondo la mia solita abitudine avevo infilato la mia chiave magnetica nella macchinetta del caffè. Si fermò e mi guardò. “Posso offrirtene uno”, le dissi istintivamente. Poi mi pentì, perché pensai che non era una cosa opportuna che lei stesse fuori dalla classe a prendere il caffé e che glielo offrissi proprio io che ero un impiegato della scuola.
Lei sorrise e, forse indovinando quello che stavo pensando, rispose che le avrebbe fatto piacere ma non voleva mettermi in difficoltà. “Nessun problema” – risposi io – “quanto zucchero?” Giada sorrise di nuovo. La preside era alle mie spalle e non me ne ero accorto.
Fui convocato e richiamato. “Caruso, proprio da lei non mi aspettavo che si mettesse a importunare le studentesse; so benissimo che fa quasi tutto il lavoro della segreteria e che per di più deve sopportare Giorgia e la Mariani, ma certi comportamenti sono inammissibili; i ragazzi vengono a scuola per studiare e non bivaccare nei corridoi; almeno noi che abbiamo una certa responsabilità dobbiamo mantenere un comportamento da persone serie e non da vecchi che sbavano per le ragazzine”. Io avevo quarant’anni e non mi sentivo un vecchio, magari sbavavo per le ragazzine, le guardavo e le palpavo con gli occhi, sognavo i loro capezzoli e immaginavo di fare del loro seno il mio guanciale per la notte. Avevo quarant’anni e uscivo poco nei corridoi della scuola per non dare l’impressione di essere un vecchio bavoso, non tanto per il bavoso, ma perché non mi sentivo affatto vecchio e poi le pulsioni sessuali sono un fatto privato, non mi va che gli altri se ne accorgano troppo facilmente. La preside dunque mi aveva fatto una ramanzina sproporzionata rispetto alla mia colpa di avere scambiato due parole con una studentessa, anche se il lato positivo della cosa era che, finalmente, qualcuno mi aveva fatto intendere di avere una certa considerazione per il mio ruolo di materasso per le intemperanze della segretaria e della collega.
Quel pomeriggio Giada mi telefonò. “Volevo sapere se avevi avuto guai a causa mia? Sai a scuola mi trattano come le mie compagne di classe, ma io sono più grande, fino allo scorso anno lavoravo; se mi va di uscire cinque minuti per andare in bagno e bere il caffè, lo faccio senza che nessuno mi debba rompere e per il resto studio a più non posso perché voglio prenderlo quest’anno il diploma”. Allora io cominciai a parlare, ne avevo bisogno. Iniziai con il lamentarmi cinque minuti di Giorgia e della Mariani e di quello che mi aveva detto la preside e poi passai a parlare di quello che leggevo e di quello che scrivevo, di quanto mi piacessero le donne e di quanto facessi di tutto per non farlo vedere troppo, fino ad ostentare una certa misoginia. Del mio interesse per l’astronomia e per la fisica e la cosmologia. Del computer che avevo comprato, di quanto costasse un chilo di pesche noce al supermercato e, alla fine, di quanto fosse bella.
Mi sentivo veramente meglio, la salutai educatamente e lei mi pronunciò un gentile “ciao”.
L’indomani in ufficio, quando entrai, Giorgia che parlottava animatamente, si interruppe non appena mi vide. Turi mi fece un sorrisetto ammiccante e io presi posto al mio tavolo e cominciai a lavorare, come sempre. Se avessi visto Giada durante la giornata l’avrei salutata e se fosse ricapitato le avrei di nuovo offerto qualcosa alla macchinetta.
Era una giornata di sole e io quel giorno compivo quarant’anni.