lunedì 13 agosto 2007

Dalla mia più tenera età, una freccia di dolore si è piantata nel mio cuore. Finché vi rimane, sono ironico – se la si strappa, muoio. (Kierkegaard)

L’angoscia è la vertigine della libertà, diceva il filosofo. Per me Kierkegaard è il filosofo di Abramo. Ancora non ho ben capito perché il sacrificio di Isacco è così diverso da ogni altro atto di fede un uomo possa compiere. Doveva esserne convinto, lui, ma io lo sono meno. Comunque non credo che sarei mai capace di arrivare a sacrificare il mio unico figlio, tanto desiderato e conquistato, in nome della fede. Ma, d’altra parte, io non sono Abramo e, nella mia fede, ho fallito così tante volte che, in questo momento della mia vita, mi sorprendo sul punto di perderla.
Vi è però nel nostro, un’idea che si impone per la sua evidenza. L’angoscia, quella vera, quella che ti prende alla gola, che ti fa sentire pieno di bruciature e di scosse elettriche, è qualcosa che si svolge nel singolo e fa sospendere ogni ozioso pensiero sulle categorie generali dell’essere. Magari il mio dolore potrà non essere il tuo, e, quindi secondo il pensiero di Parmenide, non essere, ma ti assicuro che quando fa male, mi dimentico di tutte queste cose futili, non sono affatto cosciente del mio inganno dei sensi, anzi esso assurge a dignità di realtà ultima, assoluta e suprema. Il dolore spinge ad agire più di ogni altra cosa.

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